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L’uomo in più di quella Lazio vincente : ROBERTO MANCINI

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MANCINI

Tra i cento uomini che hanno fatto la storia della Lazio, solo uno è riuscito a vincere almeno un trofeo sia da giocatore che da allenatore: Roberto Mancini. Raccontare la storia del “Mancio” non è facile, almeno per me. Da tifoso, l’ho amato alla follia come giocatore prima e come allenatore poi. Da giornalista, con lui non sono mai riuscito ad impostare un rapporto sereno, soprattutto quando è passato dal campo alla panchina. Troppo abituato ad avere intorno un gran numero di “cortigiani” o di “servi sciocchi”, non mi ha mai perdonato il mio modo di essere che mi porta a dire sempre quello che penso, a riferire quello che altri preferiscono non dire per non correre il rischio di compromettere certi rapporti di amicizia che, in realtà, non sono  poi così solidi o “veri”. A lui dava fastidio il fatto che io venivo sempre a sapere quello che succedeva dentro lo spogliatoio e, soprattutto, che non avevo nessun timore a rivelarlo parlando in radio o nei miei servizi per La7. E’ così per la lite furiosa lite con Peruzzi, è così quando dopo la sconfitta di Praga che costò alla Lazio l’eliminazione dalla Champions League 2003-2004 dissi senza problemi che aveva perso il controllo della squadra. O meglio, che il rapporto tra lui e una parte della squadra era, diciamo così, compromesso. Non me lo perdonò mai. Pochi giorni dopo, mentre ero nella Club House di  Formello ospite di una convention organizzata dalla Canon, mi fece mandare un bigliettino (che ancora conservo) da Laura Zaccheo, addetto stampa della Lazio e sua amica personale, rifiutando però un confronto faccia a faccia per chiarire il perché di quella frase che  scrisse e che tengo per me. Il confronto va in scena lo stesso qualche giorno dopo, quando entro negli spogliatoi di Formello per affrontarlo, per ribadirgli che mai e poi mai avrei fatto decidere a lui o a qualunque altro giocatore, allenatore o dirigente che cosa potevo o non potevo dire e che piuttosto che accettare una cosa del genere, avrei smesso di fare quel lavoro. Dopo duro quel confronto, i rapporti sono leggermente migliorati, anche se non sono mai stati idilliaci. Ma nonostante questo, per me Roberto Mancini resta uno dei più grandi giocatori che ho visto giocare con la maglia della Lazio. Per me, la squadra del primo anno di Mancini allenatore ha giocato il più bel calcio che ho visto giocare alla Lazio. Un mix perfetto tra il modello zemaniano tutto spettacolo e quello più pragmatico di Eriksson. E sono ancora convinto, a distanza di sette anni, che senza le cessioni di Nesta e Crespo quella Lazio nel 2003 avrebbe vinto il suo terzo scudetto.

Quando a giugno del 1997 Roberto Mancini firma il contratto con la Lazio, preferendola all’Inter di Moratti e di Ronaldo, per me e per molti tifosi della Lazio quel giorno è una sorta di Natale anticipato. Quella firma, unita a quella di Eriksson, mi convince del fatto che il tanto sospirato salto di qualità è oramai vicino. Il “Mancio”, nonostante i 32 anni e le 15 stagioni da professionista sulle spalle, si presenta come solo i grandi sanno fare. Il 31 agosto del 1997, all’esordio all’Olimpico contro il Napoli, Roberto Mancini ci mette poco più di un’ora per rompere il ghiaccio e per dimostrare a tutti che non è venuto a Roma per “rubare” un ultimo contratto, ma per chiudere alla grande una carriera già straordinaria. Quel giorno, l’Olimpico è pieno, ma sullo stadio aleggia una malinconia difficile da scacciare. Prima dell’inizio, infatti, c’è un minuto di silenzio in memoria di Tonino Di Vizio, presidente dei Lazio Club, che per me e quelli della mia generazione è stato una sorta di secondo padre, almeno allo stadio. E’ lui a dare il via a quel movimento che porta alla nascita degli Eagles Supporters, a crescere tanti che come me in quegli anni si staccano dai genitori o dai parenti per andare a vivere da soli la loro avventura di tifosi in Curva. Come tutti i fuoriclasse, Mancio non segna un gol banale, ma una splendida rete di testa che decide la partita e regala alla Lazio tre punti importanti e soprattutto la consapevolezza di avere un giocatore in grado di tirare fuori in qualsiasi momento dal suo cilindro magico la prodezza che serve per risolvere le situazioni più difficili.

Ed è quello che fa la sera del 1° novembre, segnando il suo primo gol nel derby romano. Con la Lazio in dieci, indossa i panni del leader e regala una perla destinata a restare nella storia, uno di quei gol che non ti stanchi mai di rivedere per quanto sono belli. Al primo minuto del secondo tempo parte palla al piede poco dopo centrocampo, finta di andare verso sinistra, poi con un improvviso cambio di marcia punta verso il centro, si infila tra Tommasi e Servidei, poi di collo esterno mette il pallone sotto l’incrocio dei pali alla sinistra di Konsel. Quel gol sblocca la Lazio, dà il via alla goleada, ma soprattutto apre la strada al primo di quattro successi consecutivi nel derby. Con la Roma il “Mancio” sembra avere una sorta di conto personale aperto, perché nel derby di Coppa Italia del 6 gennaio segna il gol del 3-1 con un pallonetto da fuori area. Segna tanti gol in quella stagione, tutti bellissimi. Stupendo il suo primo sigillo in Coppa Uefa contro il Rotor Volgograd, con un destro al volo su lancio perfetto di Gigi Casiraghi. In quella stagione segna e fa segnare, come nella finale con il Milan, quando regala una serata di gloria anche a Guerino Gottardi. Alla fine saranno 9 le reti del “Mancio” nella sua prima stagione in biancoceleste, tutte belle, tutte importanti per alzare il primo trofeo. Ma il bello deve ancora arrivare, perché quella Coppa Italia non è un punto di arrivo, ma la prima puntata di una storia meravigliosa.
A fine agosto del 1998, nella finale di Supercoppa con la Juventus non segna, ma regala un assist di tacco a Nedved, poi fa il bis consegnando a Sergio Conceicao l’assist per il gol che regala alla Lazio il secondo trofeo in quattro mesi. Oramai si è ambientato, i suoi figli scorrazzano per Formello indossando uno la maglia della Sampdoria e l’altro quella della Lazio. Roberto Mancini nella sua seconda stagione laziale dà il meglio di sé, anche grazie all’arrivo di Bobo Vieri e, soprattutto, di Sinisa Mihajlović. L’intesa tra lui e il serbo è fantastica. Basta uno sguardo e il “Mancio” come per magia si fa trovare nel punto giusto dove Sinisa piazza il pallone: su calcio d’angolo, su punizione e con un lancio di 40 metri, fa poca differenza. Il 29 novembre, la coppia Mihajlović-Mancini dà spettacolo. Con la Roma appena passata in vantaggio, Sinisa pesca con un lancio di 40 metri Mancini nell’area giallorossa: senza neanche guardare né il suo marcatore né il portiere, Roberto segue la parabola disegnata da un  pallone che sembra telecomandato, si coordina e al volo di sinistro calcia a fil di palo battendo Chimenti. Dopo pochi minuti, la “coppia” concede il bis, per un gol ancora più bello: Sinisa da sotto la Monte Mario batte una punizione, ma invece che cercare la porta tira teso a mezza altezza verso Mancini che gli va incontro e di tacco tocca il pallone quanto basta per spedirlo alle spalle di Chimenti che non fa neanche in tempo ad accorgersi di quello che è successo. Un caso? Assolutamente no. Un mese e mezzo dopo, infatti, Mancini e Mihajlović concedono il bis, per quello che viene ancora oggi considerato uno dei gol più belli nella storia della Lazio. A Parma, il 17 gennaio 1999, su calcio d’angolo di Mihajlović, Mancini va verso il pallone e con un colpo di tacco manda la sfera sotto l’incrocio dei pali, con Buffon immobile. Mancio corre verso Sinisa, raggiunto di corsa da Bobo Vieri che con gli occhi sgranati lo abbraccia e gli grida: “Cosa hai fatto, cosa hai fatto!”

In questa stagione non si contano le “perle” che regala Mancini. Per la causa, a fine campionato si inventa anche centrocampista. Fa di tutto pur di coronare il sogno di vincere il suo secondo scudetto. Nonostante i suoi 12 gol, invece, quello scudetto prende la strada di Milano. Nonostante il successo in Coppa delle Coppe, vorrebbe mollare, ma Cragnotti ed Eriksson lo convincono ad andare avanti un altro anno. L’arrivo di Veròn e Simeone gli consente di tornare a giocare alle spalle delle punte, per avere più libertà e sfruttare le sue immense doti di uomo assist. A Montecarlo, nel primo appuntamento ufficiale della stagione, è suo l’assist di testa che consente a Marcelo Salas di segnare il gol che vale la conquista della Supercoppa Europea contro il Manchester United. In campo è una sorta di allenatore, il vero vice di Sven-Göran Eriksson. In Coppa Italia gioca una partita strepitosa a Torino contro la Juventus, trascinando la squadra ad una rimonta impensabile. Sotto per 3-0 la Lazio chiude sul 3-2, con un suo gol che risulta decisivo per la qualificazione. In Champions League, nonostante il turnover operato da Eriksson gioca 10 partite. Ma il suo sogno di mettere le mani su quel trofeo che gli è sfuggito per un soffio a Wembley nella finale con il Barcellona, sfuma contro un’altra squadra spagnola, il Valencia. Destino. Per la prima volta nella sua carriera, non segna neanche un gol in campionato. Dopo quel Verona – Lazio del 19 Marzo 2000 che ci spedisce a 9 punti dalla Juventus a Formello c’è rassegnazione e delusione. Giocatori ormai con la testa altrove e che non credono più allo Scudetto, tranne uno  “Il Mancio” che insulta tutti i giocatori e con toni aggressivi incita la squadra a non mollare perché finché la matematica non li condannava si poteva sperare e infatti le cose sono andate proprio come sperava lui. L’ultima giornata in occasione di Lazio-Reggina, nel giorno del suo addio al calcio giocato, ma sceglie di lasciare la vetrina e la gloria dal dischetto a Juan Sebastiàn Veròn e a Simone Inzaghi. Se ne va tra gli applausi del pubblico quando lo scudetto è ancora una chimera. La Nord lo chiama, l’amico di sempre Attilio Lombardo se lo carica sulle spalle e lo porta fino a sotto la Curva. Poi, l’apoteosi. Chiude la sua carriera conquistando scudetto e Coppa Italia. A fine stagione si toglie la maglia da gioco per indossare giacca e cravatta, e diventa a tutti gli effetti il vice di Sven-Göran Eriksson. E vince subito una Supercoppa Italiana. Quando a gennaio arriva il divorzio tra Eriksson e la Lazio, Roberto Mancini è convinto di meritare una chance. Ma Sergio Cragnotti sceglie di puntare sull’esperienza di Zoff e lui va via sbattendo la porta. Va in Inghilterra, nel Leicester, per indossare nuovamente per sole 4 partite gli scarpini. Poi dice definitivamente basta. A Firenze è Cecchi Gori a concedergli una chance da primo allenatore e lui lo ripaga conquistando la Coppa Italia. Torna a Roma per ricostruire la Lazio dopo la stagione tutta da dimenticare firmata Zaccheroni. In poche settimane, riesce a trasformare il gruppo. La squadra gioca un gran calcio, impressiona tutti e in un’intervista a Sportilia, in occasione del raduno degli arbitri, Marcello Lippi mi dice: “Se non vendono Nesta e Crespo, secondo me la Lazio vince lo scudetto”. I problemi economici, però, costringono Cragnotti a cedere sia l’uno che l’altro, proprio nell’ultimo giorno di mercato. La botta per l’ambiente è da KO, ma lui riesce a fare gruppo, a far stipulare alla squadra una sorta di patto d’acciaio. La sua Lazio dà spettacolo fin dalla prima giornata, gioca partite indimenticabili, soprattutto in trasferta. Il 1° dicembre, a Piacenza, in un nebbione mai visto, sotto di due gol la squadra reagisce, raggiunge il pareggio, segna altri due gol annullati da Farina, ma proprio allo scadere conquista con Corradi una vittoria che riporta la Lazio in vetta alla classifica. La settimana successiva, contro l’Inter, assisto alla mezz’ora più bella nella storia della Lazio. La sua squadra segna 3 gol con un Claudio Lopez trasformato dalla cura-Mancini, poi commette l’errore di considerare chiusa la pratica e chiude con un incredibile 3-3. Ma la settimana successiva conquista un’altra vittoria-spettacolo a Torino contro la Juventus, nonostante l’arbitraggio scandaloso di Pellegrino. L’addio burrascoso di Cragnotti, gli stipendi che non arrivano e una crisi societaria che rischia di portare la Lazio verso il fallimento, condizionano il finale di stagione. Nonostante tutto, Mancini porta la Lazio in Champions League e ad un passo dalla finale di Coppa Uefa, piegata solo in semifinale dal Porto di José Mourinho, destinato a vincere tutto e a diventare una sorta di incubo per Mancini. L’anno successivo è travagliato, come la vita della società. Nonostante i mille problemi e le voci sempre più ricorrenti di un suo divorzio dalla Lazio con fuga a Milano alla corte di Moratti, Mancini riesce a confezionare un altro piccolo miracolo, portando la squadra ad alzare la quarta Coppa Italia della sua storia, la terza nell’era-Mancini. Il matrimonio finisce lì, con una fuga verso Milano che in molti non gli perdonano e che non gli hanno perdonato a distanza di anni. Ma quella tra Roberto Mancini e la Lazio dà tanto l’impressione di essere una storia incompiuta, con un finale ancora tutto da scrivere.

STEFANO GRECO



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