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Linea verde speranza

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ONAZI FELIPE ANDERSON
Se al colore giallo viene associata l’invidia e al rosso la passione, il verde da sempre è considerato il colore delle speranza. Nella mitologia greca Pandora era la moglie di Epimeteo, il fratello di Prometeo. Zeus aveva affidato a Epimeteo un vaso (o in altre versioni una scatola) che conteneva tutti i Mali dell’Universo. Ovviamente gli aveva raccomandato di non aprirlo mai. Un giorno Pandora, con curiosità tutta femminile, aprì il vaso per sbirciare dentro e lasciò fuggire i “Mali”, che resero il mondo com’è oggi. Sul fondo del vaso rimase solo la speranza, nella forma di un uccellino verde. Di qui l’associazione verde=speranza.

Quando si parla di linea verde, quindi, soprattutto nel mondo dello sport si indica un progetto proiettato al futuro, ma soprattutto la speranza di poter costruire qualcosa di solido e duraturo. Di verde, da questo punto di vista nella Lazio c’è stato ben poco in questi ultimi dieci anni, in un certo senso in grande contrapposizione con il passato. Perché il vivaio della Lazio ha sempre sfornato grandi talenti, perché soprattutto negli anni del calcio “antico” (quello prima dell’avvento degli sponsor e dei diritti tv), visto che gli unici soldi a disposizione dei presidenti erano quelli degli incassi, per non intaccare il patrimonio personale e per consentire alla Lazio di essere competitiva, Lenzini scelse la “linea verde”. Con l’obiettivo di gettare le basi per una squadra costruita in casa. Come quella Lazio allenata da Bob Lovati (con Oddi come secondo) che nella stagione ’78-’79 arrivò a far giocare in Serie A addirittura 11 giocatori nati e cresciuti nel settore giovanile su 23 utilizzati. E basta scorrere i nomi per capire il livello di allora del settore giovanile della Lazio: Giordano, Manfredonia, D’Amico, Agostinelli, Tassotti, Cantarutti, De Stefanis, Perrone, Fantini, Ferretti e Labonia. Quattro giocatori che hanno indossato la maglia della Nazionale maggiore, che diventano 6 se si allarga il discorso anche all’Under 21. E i più forti erano tutti romani.

Dopo circa due lustri di nulla o quasi, un sottile filo d’erba verde sta crescendo su un campo troppo a lungo rimasto incolto e quindi arido. E quel filo potrebbe rappresentare la speranza per un futuro diverso. Cavanda con i suoi 22 anni e Onazi con i suoi 21 anni da compiere a fine dicembre, ieri sembravano quasi due veterani al confronto di Perea, Felipe Anderson e Keita. E considerando che alle spalle di questi ragazzi stanno crescendo altri talenti come Tounkara (17 anni), Crecco (18 anni), Guerrieri (17 anni) e Cataldi (19 anni, in prestito al Crotone), per la prima volta dai tempi di Nesta e Di Vaio e forse ancora di più di allora, c’è la possibilità di gettare le basi per una Lazio costruita in casa.

Certo, i tempi sono cambiati, con la globalizzazione che ha contagiato anche il mondo se prima andavi a pescare solo nei quartieri popolari di Roma ora vai a pescare e a “rubare” anche nella cantera del Barcellona o a fare “affari” (con tornaconto soprattutto per i presidenti e per i direttori sportivi…) in Sudamerica, ma quello che conta è avere una squadra costruita in casa, ragazzi cresciuti con la maglia biancoceleste addosso che per loro è quasi una seconda pelle. Se sono anche romani è pure meglio, ma se sono spagnoli con origini africane come Keita e Tounkara ma sono arrivati a 16 anni e a costo zero o quasi, va benissimo lo stesso.

E’ per questo che il pareggio di ieri a Trebisonda ha un sapore diverso, perché conquistato grazie all’apporto di ragazzo giovani, anche di Keita che entrando in campo a partita ampiamente compromessa ha dimostrato ancora una volta grande personalità e di poter essere decisivo, come aveva fatto con l’assist vincente per Hernanes nella sfida all’Olimpico con il Legia Varsavia. Che poi a segnare la doppietta del pareggio sia stato un “vecchietto” come Floccari, è un altro discorso, ma la presenza di tanti giovani intorno è sicuramente rivitalizzante e stimolante per giocatori che hanno superato la soglia dei 30 anni.

Se questi ragazzi indossano la maglia della Lazio e possono rappresentare un sottile filo verde di speranza per il futuro, è senza dubbio merito di chi li ha scelti e di chi li ha portati a Roma. Questo vale per i procuratori che hanno offerto alla Lazio su un vassoio d’argento Onazi, Keita e Tounkara, ma anche agli osservatori che hanno scovato Cataldi, Crecco e Guerrieri, come vale per Lotito e Tare che sno andati a prendere Felipe Anderson e Perea, anche se quasi 13 milioni di euro per due giocatori di quell’età non sono certo un prezzo da “offerta promozionale”. Comunque, li hanno presi loro e così come è sacrosante fischiare e insultare quando si buttano soldi in operazioni alla Barreto, alla Alfaro o alla Makinwa, è giusto applaudire se alla fine dei giochi si dimostra che i soldi sono stati investiti bene. Certo, Perea ha giocato appena 110 minuti, ma così come due settimane fa abbiamo ricoperto di elogi Keita per l’assist a Hernanes, non si può non applaudire questo ragazzo che ieri ha retto per più di un’ora da solo l’intero peso dell’attacco e a giuochi fatti ha servito due assist vincenti su tre gol segnati. Così come non si può restare indifferenti davanti alla prestazione di Felipe Anderson, che ha sbagliato sì due gol fatti solo davanti al portiere, ma oltre a farsi trovare al posto giusto al momento giusto ha sfoderato numeri importanti e ha giocato con una personalità che non è proprio scontata per un ragazzo di 20 anni e per giunta all’esordio dopo quasi cinque mesi di stop per infortunio.

Detto tutto questo, in altri tempi probabilmente si sarebbe dato fiato alle trombe per celebrare l’impresa di questi ragazzi e si sarebbero spesi fiumi d’inchiostro per elogiare sia i giocatori che chi li ha scelti o comprati. Oggi non succede, perché la prima domanda che si fanno tutti è: quanto durerà? Perché questi 9 anni ci hanno insegnato che spesso e volentieri le scelte sono state indovinate, ma poi la semina è andata perduta al momento di riconoscere ai talenti diventati campioncini il loro reale valore dal punto di vista economico. Sono tanti, troppi quelli che sono scappati via o che hanno rotto con la società al momento del rinnovo o della firma del primo contratto vero per pensare a delle sfortunate coincidenze o alle congiure di un pool di procuratori. Behrami, Pandev, De Silvestri (che non era e non è un campione ma in questo gruppo ci poteva comunque stare), Kasami, Faraoni, Marin, Diakité (idem come per De Silvestri) sono solo alcuni dei precedenti che non fanno ben sperare, o meglio che rappresentano in un certo senso il timore che ancora una volta si possa disperdere una semina importante. Anche perché questa società, purtroppo, ha dimostrato e dimostra con una continuità quasi irritante (che fa pensare quasi ad un dispetto), di non imparare mai nulla o quasi dagli errori commessi in passato. Ma sarebbe un vero delitto non proteggere questa sottile linea verde, non curare quel filo verde appena spuntato e che nel giro di qualche anno potrebbe diventare uno splendido prato…

STEFANO GRECO



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