renzo nostini

Nel luglio del 2005, novantunenne, ammalato, assistito, eluse ogni sorveglianza, scappò dalla casa di via Monte Zebio, in Prati, e raggiunse lo stadio delle Tre Fontane, all’Eur, per assistere al derby fra Lazio e Roma per lo scudetto dell’hockey su prato. Vinse la Lazio. Esultò, riprese la strada di casa, fu rimproverato come un adolescente per la sua marachella. Poco più di due mesi dopo, il primo ottobre, chiuse gli occhi per sempre. Renzo Nostini, di cui oggi ricorre il centenario della nascita, per quasi un secolo ha consegnato la sua vita allo sport.Da bambino rubava le stampelle dagli armadi per incrociarle con il fratello maggiore Giuliano. Impugnando fioretto e sciabola ha vinto sette titoli mondiali, quattro medaglie d’argento alle Olimpiadi e sette ai mondiali. E per 32 anni è stato presidente della Federazione.

Eppure la scherma ha coperto soltanto uno spicchio della sua attività sportiva. Esempio credo unico nel panorama sportivo italiano, ha raccolto soddisfazioni e allori anche nel nuoto, pallanuoto, pentathlon, rugby e sci. Ricoprendo le più alte cariche dirigenziali tranne – è stato questo il suo grande cruccio – quella di presidente del Coni. Io l’ho conosciuto tardi, quando aveva già varcato la soglia dei 60 anni, ma riusciva ancora a dare la scossa. Correva, nuotava, predicava passione per lo sport, ricopriva un’infinità di ruoli dirigenziali. Con me si lagnò una volta perché alcuni lo ritenevano un “fascista”, solo perché Mussolini gli consegnò solennemente dei diplomi sportivi. E ricordava quando al Mondiale universitario del 1947, a Parigi,“dovetti zittire il mio segretario che davanti alla bandiera italiana si mise a cantare Giovinezza”

Aveva nel cuore due colori: il bianco e l’azzurro. Per la Lazio si spese fino allo stremo. Ha gareggiato nel suo nome, ha presieduto le sezioni della scherma e del nuoto, è stato vice e poi presidente generale della Polisportiva, alla quale diede un enorme impulso: nel 1981 con Casoni e il “figlioccio” Antonio Buccioni, avviò uno sviluppo che avrebbe portato le sezioni dalle 10 di allora alle 59 attuali. La sua lazialità, che, come abbiamo visto, egli manifestò fino a pochi giorni prima della morte, non si esauriva all’ambito sportivo. Nella sua ultima intervista c’è un passo che è più di una dichiarazione di affetto, è un atto di fede: “E’ più difficile descriverla che sentirla la lazialità: è signorilità non di carattere esteriore, è cosa che si avverte dentro, della quale ci si sente orgogliosi. E’ un messaggio che tocca i cuori, la mente, la sensibilità e ci innalza verso il cielo, è un messaggio di costume di vita e quindi incide nel comportamento quotidiano di ciascuno di noi. E’ importante dimostrarla in ogni occasione, nei campi di gioco e nella vita”.Chissà se qualcuno vorrà dimostrarla oggi, inserendo – in questo mese di celebrazioni – il ricordo dei cento anni di uno dei personaggi più meritevoli e più sottostimati della storia laziale



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