Ci sono dei giocatori che sono dei “predestinati”. Se hai sensibilità lo capisci dalla prima volta che li vedi: per la sfrontatezza con cui tentano giocate rischiose, per come toccano la palla, per come spiccano in mezzo agli altri perché giocano a testa alta e si muovono con naturalezza in campo, come se quel prato verde che per alcuni è una prateria immensa e insidiosa per loro fosse né più né meno che il salone di una casa in cui hanno sempre vissuto. Ma, soprattutto, perché all’esordio lasciano sempre e comunque il segno ripagando le attese. Basta pensare a Bruno Giordano, che lanciato titolare da Corsini come spalla di Giorgio Chinaglia bagnò il suo esordio segnando al 90’ il gol che regalò la vittoria alla Lazio in casa della Sampdoria, il 5 ottobre del 1975. Basta pensare a Marco Di Vaio, che buttato nella mischia da Zeman all’Olimpico contro il Padova ci mise appena 9’ a segnare il suo primo gol in Serie A. A tutte le regole, poi, ci sono delle eccezioni, ragazzi che hanno tutto per essere dei predestinati ma poi si perdono abbagliati dalle luci della ribalta. Uno di questi, è Mauro Meluso, che all’esordio da titolare a 18 anni e 10 mesi segnò addirittura una doppietta il 6 novembre del 1983 nel 2-1 contro l’Avellino. Ma quel del “pupillo” di Giancarlo Morrone, furno i primi e unici gol in Serie A, l’unico lampo di una carriera consumata alla periferia del grande calcio, tra Salerno, Monopoli, Foggia e Casarano. Sì, perché ogni regola ha almeno un’eccezione…
Keita Balde Diao ha 18 anni e sei mesi: sette mesi meno di Bruno Giordano, appena due in più di Marco Di Vaio e al contrario dei due bomber cresciuti nel vivaio della Lazio non ha segnato al suo esordio da titolare, ma in quegli 85’ in cui è stato in campo ha lasciato comunque il segno, firmando l’assist per il gol di Hernanes che ha regalato alla Lazio la vittoria nell’esordio in Europa League contro il Legia Varsavia. E come e più di Giordano e Di Vaio, Keita sapeva di avere tutti i riflettori puntati addosso. Perché i primi due sono cresciuti tranquillamente all’ombra di miti come Giorgio Chinaglia e Beppe Signori, mentre su Keita la Lazio ha puntato molto fin dall’inizio. Perché uno cresciuto nella “cantera” del Barcellona è destinato a ricevere attenzioni particolari; perché uno che segna 50 gol in una stagione negli Allievi nel calcio globale si ritrova inevitabilmente tutti i riflettori puntati addosso; perché uno che dice “ciao” al Barcellona e sceglie Lazio accettando di restare fermo un anno è uno destinato comunque a fare notizia e a suscitare interesse. Poi, lo vedi giocare e capisci che è un “predestinato”. E lui sul campo, partita dopo partita, conferma di essere magari un po’ pigro e indolente come tanti campioncini in erba, ma di avere i numeri per sfondare e la sfrontatezza tipica di chi non sa cosa significa entrare in punta dei piedi in un mondo dorato ma che può tritarti in pochi mesi. Alcuni scelgono il profilo basso per crescere tranquilli, quelli come Keita no. Basta pensare al numero che ha scelto quest’anno: il 14. Per quelli della mia generazione il 14 è un numero magico, quello di Johan Crujiff, il “profeta del gol” che ha fatto innamorare tutti e che nella classifica all time dei fuoriclasse del calcio mondiale per molti sta sul podio preceduto solo da Pelé e Maradona. Anche perché al contrario di Pelé e Maradona lui quel sogno di alzare al cielo la coppa di Campione del Mondo lo ha solo accarezzato e si è infranto sul più bello. Forse è solo una coincidenza, ma Johan Crujiff ha portato quel numero 14 anche in Spagna, quando ha indossato la maglia del Barcellona. E fino all’esplosione di Leo Messi, Crujiff è stato considerato da tutti il più grande di sempre tra le migliaia di giocatori che hanno vestito quella maglia “blaugrana”.
Ma per chi crede nel destino e quindi nell’esistenza dei “predestinati”, nulla è casuale, quindi non lo è neanche la scelta del numero 14 bianco stampato su quella maglia celeste. E se oggi fa un po’ sorridere il fatto che Keita sia stato già soprannominato KBD14, scimmiottando quasi il CR7 del giocatore più pagato del mondo, i sorrisi di oggi potrebbero forse spegnersi ben presto. Fare paragoni è sempre sbagliato, a volte è anche rischioso perché potrebbe aumentare le aspettative e bruciare in qualche modo un ragazzo, ma io ho avuto la fortuna di vedere CR7 quando aveva 17 anni e mezzo ed era considerato già un predestinato. L’ho visto da bordo campo (ero inviato per La7 a Lisbona) il 14 agosto del 2002, in occasione di un preliminare di Champions League tra lo Sporting Lisbona e l’Inter. Entrò a poco più di mezz’ora dal termine buttato nella mischia da László Bölöni, uno che campione in Romania lo è stato davvero. E in quei 30 minuti ha seminato il panico nella difesa dell’Inter, costringendo Hector Cuper a correre immediatamente ai ripari mettendogli alle costole un mastino come Matias Almeyda. Beh, sono bastati pochi minuti per capire che quel ragazzo sfacciato era un “predestinato”, ma in quella gara d’esordio non fu decisivo come lo è stato Keita ieri sera.
Nessuno si sogna di fare paragoni, anche perché sarebbe assurdo caricare ulteriore peso sulle spalle di questo ragazzo che a soli 18 anni è già al centro di tante, forse troppe attenzioni. Ma i veri “predestinati” si vedono proprio in questi momenti. Se lo sei, cresci di partita in partita, pur con le pause comprensibili di un giovane a cui non si può chiedere di avere la continuità e l’esperienza di un Klose. Se non lo sei, fai la fine di Mauro Meluso e di tante stelle che hanno brillato solo per una notte, che hanno attraversato il firmamento del calcio con una grande luce che si è spenta immediatamente, senza lasciare nessun segno se non una lunga scia di rimpianti per quello che poteva essere e non è stato. Domenica il derby Keita lo vedrà dalla panchina, pronto ad entrare in caso di necessità. Magari per essere usato come jolly porta fortuna, perché lui qualche mese fa in un derby importantissimo in quel di Trigoria ha lasciato il segno firmando il gol che ha consentito alla Lazio di ipotecare la qualificazione alla fase finale del campionato europeo e di mettere fuori gioco la Roma. Quel giorno, Keita fece la figura del marziano, di un Gulliver in mezzo ai Lillipuzziani tanta era a parità di età la differenza tra lui e gli altri 21 in campo. E dopo aver trascinato la primavera alla conquista dello scudetto, ora è finalmente arrivato il momento del grande salto. Il primo atterraggio è stato morbido, quasi perfetto, da vero “predestinato”. Ma ora arriva il difficile, ora Keita deve dimostrare a tutti di essere uno vero. Una certezza, non una promessa…
STEFANO GRECO
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