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Intervista

Intervista al Presidente Antonio Buccioni

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In esclusiva su Since1900, una lunga e piacevole intervista con il numero uno della Polisportiva biancoceleste

Il Presidente della Polisportiva S. S. Lazio Antonio Buccioni ha gentilmente concesso un’intervista a noi di Since1900, dimostrando cordialità e grande apertura verso la platea biancoceleste. Al Presidente vanno i nostri ringraziamenti e i migliori auguri di buon compleanno, con la speranza che per ancora tanti anni possa essere la guida della Polisportiva più antica d’Europa.

Partiamo proprio dalla Polisportiva: Lei in qualità di Presidente cosa può dirci sulla situazione generale? A che punto siamo? È abbastanza competitivo il movimento sportivo laziale?

È una domanda che fatta oggi assume una problematica diversa da quella che sarebbe potuta essere due mesi fa. Avrei detto che, per quel che oggi si chiama brand, la Lazio ha un fascino che io stesso fatico a comprendere fino in fondo. Chiunque si avvicini alla Lazio o anche soltanto viene a trovarmi, viene quasi persuaso dal voler ampliare la famiglia. Noi viviamo in un Paese dove non ci sono sponsor, in una città dove non c’è industria, dove Istituzioni pubbliche da tanti anni non erogano più nessun tipo di provvidenza a favore dello sport e abbiamo grossi problemi impiantistici, eppure c’è un “fascino Lazio” che porta il movimento quindi ad espandersi. A titolo di esempio, abbiamo un progetto per la creazione di una sezione di tennis tavolo, che purtroppo da 15 anni non abbiamo più. Questo è quanto avrei detto due mesi fa, oggi rincaro la dose. Non abbiamo vissuto l’esperienza delle guerre ma questa è una situazione eccezionale ed epocale assimilabile a quella di una guerra e su tante cose non ho chiarezza di quello che sarà. Su un aspetto sicuramente sì: il giorno in cui si ricomincerà a vivere normalmente, non sarà semplicemente il giorno della ripresa che segue l’ultimo giorno prima della chiusura totale. Ci saranno dei cambiamenti che toccheranno anche lo sport. Apparentemente dovranno esserci meno risorse e possibilità, sarà una situazione non dissimile da quella post 1945 e dovrebbe favorire chi lavora stabilmente con delle difficoltà e handicappare chi lavora con il lusso. In queste situazioni ho tenuto saldi i rapporti con i Presidenti delle circa ottanta Associazioni che rappresentano la Lazio per spronarli a rendersi conto della spirali e delle pieghe che prenderanno le diverse discipline sportive, per anticiparsi e comprendere meglio degli altri i comportamenti da assumere a riguardo. Se agiremo in questa direzione, la Lazio non deve avere paura del futuro.

Anche perché parliamo di una Società sana, non solo calcisticamente, dunque non bisognerebbe temere il futuro…

Sì, soprattutto considerando che si tratta di una Società che ha molti settori e che dunque non hanno un bilancio unico. Tutte comunque abituate a lavorare con difficoltà oggettive. Chi lavora abitualmente in difficoltà ha oggettivamente più destrezza rispetto a chi si trova improvvisamente con delle privazioni.

Avvicinarsi oggi allo sport non è interesse primario di tutti, specialmente nelle nuove generazioni. C’è qualche responsabilità da parte delle Istituzioni e dei vertici dello sport, a livello sia nazionale che europeo?

Sebbene io non sia incline all’ottimismo, la domanda forse è formulata in maniera radicale. I ritardi nei confronti di aree geografiche e socio-culturali ci sono, ma alla fine certi movimenti si impongono. Una volta lo sport era considerato qualcosa di elitario, superfluo e assolutamente non necessario. Con un processo davvero molto lungo, sebbene con defaillance colossali, siamo giunti a considerare che lo sport è imprescindibile per la salute umana. Il progresso comunque c’è stato, seppur con molte difficoltà: ho chiari ricordi circa la maldestra organizzazione scolastica e in particolare riguardo le sole due ore settimanali di educazione fisica e quel che accadeva agli inizi degli anni ’70 purtroppo accade anche oggi. Per questo mi riferisco alla falla colossale del sistema scolastico. Si tratta di un modo di approcciare allo sport che è addirittura nocivo ed è totalmente da archiviare.

Dunque Lei, riguardo questa situazione, cosa si sente di dire alle generazioni future?

Io mi auguro che, riferito alla nostra piccola patria di sentimenti che è la Lazio, ci possa essere da un lato un pieno adeguamento alla storia, con un preciso modo di essere nello sport adottando una costante ricerca dell’attualità addirittura anticipando i tempi rispetto agli altri; ideologicamente parlando, invece, mi auguro si possano mantenere le radici e lo spirito dei ragazzi del 9 gennaio del 1900 che crearono un Sodalizio con una intento dirompente rispetto alla società di allora. Cioè portare lo sport, fino a quel momento appannaggio di qualche nobile e limitato a discipline classiche come scherma, danza classica e rudimenti di nobles artes, a diventare uno sport moderno e popolare. Dunque ancoraggio ideale alle proprie radici e adeguamento organizzativo costante a quello che lo sport a livello planetario ci mostra.

Messaggio bellissimo il Suo. Lei ha parlato di ideali, noi aggiungeremmo anche il concetto di “valore”. Quale per Lei meglio identifica la Lazialità?

Intendere lo sport come cimento costante prima di tutto nei confronti di se stessi e verso l’avversario, il quale non va mai temuto ma sempre rispettato. Che poi è la lezione che ci si tramanda, dicendole alla laziale, “di padre in figlio” ed è quello che mi hanno lasciato i padri della Lazialità.

C’è stato per Lei un atleta che più di tutti ha consacrato e fatto suo più di altri questo concetto?

Tra i calciatori, Ezio Sclavi per abnegazione che tale da, come affermò Pennacchia nel ’69, “sconfinare anche nello stoicismo”. Da questo punto di vista c’è ne sarebbero a onor del vero esempi innumerevoli che non sono isolati. Mi viene in mente Maura Furlotti per il calcio femminile, che ha disputato quasi 500 partite in Serie A, annoverano 4 scudetti e 3 Coppe Italia, collezionando circa 100 presenze con la Nazionale Italiana. Sono esempi, grazie a Dio, ricorrenti.

A proposito di storia: per chi non ha vissuto lo Scudetto del ’74 o anche quello del 2000, Laziowiki è una vera e propria enciclopedia che fa da punto di riferimento. Che legami ha con la Polisportiva e quanto è importante questo contributo che offre?

Sono indubbiamente rapporti idilliaci e di fraterna collaborazione. Sono molto affezionato a Fabio Bellisario, a Barbara Dorelli che ora è Presidente di Laziowiki e socia della Canottieri Lazio. Hanno fatto cose meravigliose. Aggiungo, anche per dovere di ruolo, che sono tra i migliori ma non gli unici, non volendo comunque sminuire nessuno. Un grande lavoro, specialmente sul pianeta calcio, lo svolge il Centro Studi Millenovecento che può contare su studiosi di primo livello. Ho avuto il grande onore di essere invitato a scrivere diverse prefazioni per Laziowiki ed è stata una bella soddisfazione.

Tornando al discorso puramente strutturale: nascono spesso suggestioni intorno allo stadio Flaminio. Come vede un riutilizzo dell’impianto per la sezione calcistica della Lazio?

“Su questo sono perentorio: non vedo alcuna possibilità di riutilizzo per la Lazio calcio. Gli impianti moderni hanno standard ben precisi e il Flaminio, per aderirvi, dovrebbe essere smantellato e ricostruito portando via con sé il carico di ricordi che conserva. Con grande rammarico sentimentale (sono stato battezzato il 19 settembre del 1965 quando mio padre mi portò al Flaminio a vedere Lazio Varese, terza di campionato ’65-66) devo ammettere che quell’impianto non è funzionale per il calcio e l’abbattimento violerebbe quello che di fatto è un patrimonio artistico e culturale. Potrebbe essere utile alla causa laziale per ambienti indoor. Per tutti gli sport all’aperto (tra cui rugby, calcio femminile, hockey su prato) non vi sono strade praticabili. A peggiorare la situazione c’è stato il cambiamento del nostro Paese nell’approccio allo sport negli ultimi 25 anni. Andando ancora indietro negli anni, nei trafiletti dei giornali sportivi si poteva ancora trovare spazi sufficientemente ampi dedicati ad altri sport; la situazione oggi è diversa, magari perché parlare di calcio in via esclusiva apporta maggiori guadagni. Sarà efficace come strategia, ma rappresenta davvero la morte dello sport. In altri Paesi, nelle aree geografiche socio-culturali affini all’Italia come ad esempio in Francia, la situazione cambia di poco: sebbene negli anni ’70 il rugby abbia fatto da contraltare al calcio e tutt’oggi esistono interessi nei confronti di Formula 1, basket e pallavolo, il calcio ha assoluta leadership. Se nel Flaminio di allora ad una partita d rugby ci sarebbero stati circa 1500 paganti a fronte dei probabili oggi 400 spettatori (spronati comunque dal titolo gratuito del biglietto). Dunque, per concludere, l’indoor presenta un discorso diverso: c’è una piscina che potrebbe essere sfruttata, potrebbero stabilirsi sezioni di scherma o ginnastica artistica, potrebbe prendere forma un museo. “

Lei ha parlato di calcio femminile: sembra che a livello nazionale ci sia una certa rinascita, una nuova primavera. Come si colloca in questa rinascita la Polisportiva Lazio?

Domanda interessante. Il movimento di rinascita c’è ed è figlio dell’interesse dei club professionistici maschili, sostanzialmente obbligati a dotarsi del settore femminile. Juventus, Milan, Fiorentina hanno prontamente recepito le direttive; la Juventus sta avviandosi a ricalcare il ruolo e il sentiero che da sempre riveste nel calcio maschile. La Lazio è stata la superpotenza del calcio femminile italiano dal 1969 al 2003, è stata una società che ha vinto 5 Scudetti e 4 Coppe Italia, una sorta di Coppa UEFA ed ha insegnato alla nazione cosa vuol dire un settore giovanile degno di questo nome. La Società storica ha avuto meriti straordinari nella collocazione della disciplina nello sport italiano: esisteva una Federazione Italiana Giuoco Calcio Femminile distaccata dalla Federcalcio; la Lazio, nell’estate del 1986 non si affiliò più a questa organizzazione bussando alle porte della Federcalcio, facendo appello alla Legge istitutiva del CONI che non prevede il sesso come requisito per distinguere un’attività di carattere sportivo. Dunque, grazie alla Lazio, la Federcalcio è stata obbligata ad istituire una sezione femminile inglobando titoli e meriti della preesistente Federazione distaccata, dotandola di diversa dignità. Quella della Lazio fu una difficile battaglia di libertà e di modernità. La Società storica della Lazio femminile sopravvive, nell’ultima divisione; la Lazio calcio ha invece creato, sulla scia delle altre squadre professionistiche, una propria sezione femminile che, prima dell’emergenza sanitaria, stava disputando un ottimo campionato in quella che per noi è la Serie B maschile. Mi auguro arrivino le possibilità per unificare le due situazioni in casa Lazio, per preservare la ricchezza di un contesto che ho vissuto da vicino. Metà squadra Nazionale era biancoceleste, tale da chiamarla “Lazionale”, dunque mi auguro la fine di questa dicotomia interna.

A proposito di battaglie di non proprio scontato esito: a che punto siamo con l’assegnazione dello Scudetto del 1915?

Io sono indignato per quello che è successo. Con il Presidente Federale Carlo Tavecchio è stata insediata una Commissione di altissimo spessore professionale, culturale e morale che ha sancito la legittimità di un’attribuzione dello Scudetto del 1915 ex aequo alla Lazio. Il Consiglio Federale avrebbe dovuto semplicemente prendere atto di questo e procedere alla proclamazione. Il Presidente Gravina ha ritenuto di insediare una nuova Commissione per una serie di situazioni, probabilmente nessuna destinata a buon esito (la circostanza a me lascia indifferente, comunque diversa da quella che ci riguarda). Siccome esiste un principio di diritto che si chiama “ne bis in idem”, credo sia stato semplicemente operato male. Anche da questo punto di vista bisognerebbe parlare: si vorrebbe insinuare una probabile vittoria del Genoa ai danni della Lazio? Significherebbe ignorare e contraddire i principi dello sport. È una partita che doveva disputarsi e non si è disputata. Mi rendo conto che parlare più di un secolo dopo è molto facile, ma credo non si sia disputata per ragioni psicologiche e per non incidere sulla coscienza della popolazione, piuttosto che per ragioni logistiche. Il Primo Conflitto Mondiale ha interessato, a differenza del Secondo, regioni come Veneto, Friuli e Trentino Alto Adige con i modi e tempi che conosciamo; le partite in quel giugno 1915 a Roma si sarebbero potute tecnicamente giocare, parlando in termini semplici e brutali. Attendiamo ancora, dunque. Certamente la prima Commissione a cui ho fatto riferimento ha detto quel che doveva dire, essendo forte di una composizione di enorme prestigio senza laziali all’interno (anzi…), con i crismi di un’autorevolezza assoluta. Sembra che si abbia qualche timore a procedere.

“Strategie di comunicazione a difesa e promozione a difesa della Società Sportiva Lazio” è un convegno tenutosi ad aprile dello scorso anno a cui Lei ha partecipato. Alla Lazio spesso non ci si riferisce col dovuto rispetto e riguardo in virtù di quello che rappresenta, cioè la Polisportiva più grande d’Europa, e di quello che ha dato al panorama sportivo nazionale. Secondo Lei quali ragioni si celano dietro certi atteggiamenti, in voga soprattutto negli ambienti della stampa?

Prima aggiungo qualche precisazione e qualche correzione, sebbene mi sembra di capire che la pensiamo allo stesso modo. Noi abbiamo tre aspetti da considerare. Il primo è una mia battaglia personale da imputare a due situazioni negative e cioè l’impreparazione del giornalismo sportivo e della comunicazione sportiva e l’appiattimento supino alle logiche del calcio post-professionistico. Quando si parla della Lazio, alla seconda parola di solito si va in errore. L’Organismo che io presiedo è la Società Sportiva Lazio, la nostra sezione di Football è la Lazio calcio; nell’accezione generale la Lazio calcio è diventata la Lazio e la Società è diventata la Polisportiva, è una locuzione che io non amo e trovo cacofonica, si tratta di verità storica. Poi c’è un discorso legato alla Polisportiva attorno alla quale io non percepisco negatività; di solito intorno al 9 gennaio (compleanno della Polisportiva, ndr) vedo una esaltazione per certi aspetti, almeno quelli rigorosamente di qualità, anche eccessive, laddove quasi arrossisco. Non posso riscontrare delle negatività riferite al mondo che io rappresento. Poi c’è un terzo aspetto legato strettamente al fenomeno calcistico: essendo estremamente sintetici, spesso e volentieri sembriamo un’eccezione quando in determinate circostanze siamo una regola. Regola di cui molta gente ci addita come esempio, riguardo quindi a fenomeni più generali. Le ragioni che si celano sono da ricercare in tutti i sentimenti più negativi del mondo: la superficialità, che è quello più colposo e meno doloso, è in qualche caso persino premeditazione ideologica. ”

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