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“Avevamo un’aquila sul petto e il nome Lazio tatuato sulle spalle”

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Angelo Gregucci è l’anello di congiunzione tra la Lazio di Calleri e quella di Cragnotti, l’emblema della crescita di una società passata nel giro di pochi anni dal rischio di sparire dalla mappa del calcio italiano all’ingresso trionfale in Europa. Lui, che nell’anno della «Banda del meno nove» era solo un ragazzino sconosciuto alla corte di Fascetti, pochi anni dopo era il capitano della Lazio di Dino Zoff che tornava dopo quindici anni sulle scene europee. Per questo, ancora più che per l’amicizia che ci lega da più di vent’anni, l’ho scelto come uno dei simboli di quella squadra e come uno dei miei compagni di narrazione di quella grande avventura. È passato più di un quarto di secolo, ma me lo ricordo come fosse ieri nel suo primo giorno di Lazio. Alto, magrissimo, abbronzato, un filo di barba incolta e lo sguardo di un bambino che entra per la prima volta in un parco giochi. Arriva a Tor di Quinto con l’andatura ciondolante e le mani infilate nelle tasche dei bermuda, forse per mascherare tensione ed emozione.

Nato a San Giorgio Ionico, il 10 giugno del 1964, e cresciuto calcisticamente nel Taranto, Gregucci arriva a Roma accompagnato dalla sgradevole etichetta di «raccomandato» o, nella migliore delle ipotesi, di «uomo del presidente», solo perché, insieme a Camolese e Sgarbossa, viene dall’Alessandria (C2), l’ex società di Gianmarco Calleri. Società in cui Carlo Regalia ha lavorato bene se è vero che da lì anche altri due giocatori, Carrera e Pagano, approdarono in serie A, il primo addirittura alla Juventus. Ad Angelo tocca esordire nella Lazio nell’anno più incredibile della sua storia, e fin dall’inizio capisce che quell’avventura di normale avrà poco o niente.

«Ci fecero andare all’Hotel Villa Pamphili. Eravamo io, Sgarbossa e Camolese. Appena arrivati a bordo di un taxi, ci accolse il direttore dell’albergo che scusandosi ci disse: “Mi dispiace ragazzi, ma non potete restare qui. Abbiamo dei problemi con la Lazio (che non pagava il conto da tempo immemorabile) quindi dovete trovare un altro posto dove poter alloggiare”. Ci guardammo perplessi, chiamammo Manzini e da lì ci portarono alla pensione Paisiello. E anche in ritiro successe la stessa cosa. Dovevamo andare in un albergo isolato, invece ci trasferirono in un altro che stava proprio sulla statale. Insomma, capimmo subito che aria tirava».

Sono i giorni difficili di Gubbio, quelli in cui si decide il destino della Lazio. E non solo quello sportivo di quella stagione.

«I primi giorni tutti avevamo un po’ sottovalutato quello che stava succedendo a Milano. Poi, giorno dopo giorno, abbiamo capito che la situazione era molto diversa da quella che ci era stata descritta. Passavamo le nostre giornate tra campo e camera d’albergo, attaccati al televisore o alla radio per avere notizie, e noi giovani scrutavamo le facce di quelli più esperti del gruppo per cercare di capire che cosa stava succedendo. Ricordo come se fosse ieri il giorno della prima sentenza. Il collante di tutto era Maurizio Manzini. Ci riunimmo in una sala dove c’era un televisore e lì, in diretta dal Tg, venimmo a sapere che ci avevano retrocessi in C1. Calò un silenzio di tomba, nessuno riusciva a dire nulla. Fu Fascetti a prendere in mano la situazione, ci disse che lui sarebbe restato e ci invitò ad andare in camera a riflettere, poi ci saremmo riuniti nuovamente per decidere che cosa fare. Podavini, Magnocavallo, Caso e Fiorini cominciarono a parlare fitto fitto tra di loro, poi cominciarono a passare da una camera all’altra per ragionare con quelli più titubanti per prendere una linea comune. A noi non ci guardavano neanche. Eravamo sotto shock e faticavamo anche a capire che cosa stava succedendo».

Minuti che sembravano ore, dubbi e paure che si trasformavano in macigni in grado di schiacciare chiunque, figuriamoci dei ragazzi di poco più di vent’anni alla prima grande esperienza della loro carriera.

«Fascetti ci fece chiamare, ci riunimmo in un sottoscala, in una sala piccola, mentre intorno a noi crollava tutto. I tifosi in albergo piangevano, noi eravamo tutti sotto shock perché eravamo impreparati a quella retrocessione a tavolino. L’allenatore ci disse che saremmo andati incontro a un’estate infernale e che per uscirne indenni serviva una presa di posizione decisa da parte della squadra. Dovevamo essere noi a dare un segnale forte e di unità, ed essere pronti a tutto, anche ad accettare il peggio. “Chi se la sente resti, chi ha dubbi o non se la sente è meglio che vada a fare le valigie e ci salutiamo qui”. Restammo tutti. E Fascetti fu palesemente orgoglioso per quella scelta».

I giorni scorrono in quell’estate di sudore e tensione. Si arriva al giorno del verdetto definitivo, con la squadra impegnata in Coppa Italia ma con la testa altrove.

«Il giorno del verdetto stavamo negli spogliatoi dell’Olimpico. Prima di scendere in campo contro il Napoli per la seconda partita di Coppa Italia ci arrivò qualche spiffero. Il verdetto non era stato ancora annunciato, ma qualche giornalista era riuscito a sapere che la CAF aveva confermato la sentenza di primo grado, quindi la retrocessione in serie C1 della Lazio. Dentro lo stadio c’era un clima irreale, noi provammo pure a giocarla, quella partita, ma era praticamente impossibile restare sereni con quello che succedeva intorno. Tornammo in albergo per avere conferma, ma niente. Quella notizia fatta filtrare aveva cambiato tutto. Il verdetto, quello vero e definitivo, arrivò il giorno dopo. Anche in questo caso stavamo tutti insieme in albergo. È difficile dire cosa provai. Per tutti noi fu quasi una liberazione, tirammo un sospiro di sollievo, ma fino a un certo punto, perché in un campionato con la vittoria che valeva due punti, partire con un handicap di nove punti significava regalare come minimo cinque partite agli avversari. A prima vista in molti la presero come una condanna posticipata di un anno. Ma nessuno di noi sapeva che quel verdetto per noi altro non era che un biglietto d’ingresso per entrare a far parte della storia».

Gregucci inizia quella stagione da comprimario. Eugenio Fascetti lo getta nella mischia il 5 ottobre del 1986, allo stadio Olimpico, nella sfida con il Bologna, quando dopo neanche un quarto d’ora perde per infortunio Esposito. La Lazio, che fino ad allora ha raccolto la miseria di due punti in tre partite, vince il suo primo incontro e da quel momento in poi Angelo non esce più di squadra, anzi diventa il punto di forza della difesa in coppia con Raimondo Marino.

«Partimmo con un pareggio a Parma e una sconfitta in casa contro il Messina, in una partita dominata e persa in contropiede. Fu un vero e proprio trauma per tutti. Sapevamo che la strada era tutta in salita, che non dovevamo guardare la classifica, ma era dura, durissima. La svolta arrivò nella trasferta di Pescara. Nel primo tempo di quella partita ci presero a schiaffoni, dal primo all’ultimo minuto. Un gol subito, pali, traverse, altri evitati per un soffio. All’intervallo, negli spogliatoi, nessuno parlava. È bastato guardarsi negli occhi per capire che, anche se eravamo solo alla terza giornata di campionato, quella partita rappresentava già una sorta di bivio. Nel secondo tempo entrò in campo una Lazio tutta diversa: Mandelli pareggiò, e quel giorno iniziò il nostro vero campionato. Una rimonta incredibile che ci portò ad arrivare addirittura a un passo dalla zona promozione. Dopo la partita vinta con il Cesena, senza penalizzazione saremmo stati primi in classifica a pari merito con la Cremonese, ma poi qualcosa si ruppe, ed entrammo in crisi. Avevamo speso troppo per recuperare e bastò una sconfitta in casa con l’Arezzo per farci crollare. E dopo la sconfitta con il Pisa ci ritrovammo addirittura penultimi, praticamente retrocessi».

Alla fine di quel campionato, molti dei protagonisti di quella stagione indimenticabile hanno già la valigia pronta per lasciare Roma. Angelo, invece, è uno di quelli destinati a restare, uno dei punti fermi su cui costruire la Lazio del futuro.

«Siamo stati troppo tempo insieme, troppa tensione. In una stagione abbiamo bruciato le energie fisiche e mentali che si bruciano normalmente in tre o quattro campionati. Molti avevano dato tutto, anche più di quello che avevano. Separarsi da gente come Fiorini, Poli, Mandelli e Terraneo è stata dura, ma inevitabile. Io sono rimasto, perché ormai per me la Lazio era una seconda pelle. Ho giocato nella squadra della mia città, nel Torino di Mondonico arrivato a un passo dal conquistare una coppa europea, ma Taranto e Torino sono state come delle fidanzate o delle amanti, mentre la Lazio è stata per me la vera moglie, quella del “per sempre, nella buona e nella cattiva sorte”, che è molto più di un semplice giuramento. E la cosa strana è che il primo gol con la maglia della Lazio l’ho segnato al Taranto, mentre il primo gol con la maglia del Torino l’ho segnato alla Lazio, e per giunta all’Olimpico. Poi uno dice che non si deve credere nel destino. Io ho visto di tutto con questa maglia, dall’incubo della retrocessione in serie C1 all’ingresso in Europa. Ho giocato con calciatori che non hanno mai fatto carriera e con fuoriclasse come Gascoigne e Signori. Riportare la Lazio in Europa da capitano è stata una soddisfazione immensa, ma non paragonabile a quella provata nel conquistare quella salvezza. Mi ha fatto male andare via proprio in quel momento, ma avevo dei problemi fisici importanti e quando mi sono sentito messo in discussione per orgoglio ho deciso di andare via. Ho fatto una cazzata, come un marito tradito ho perso la testa e sono scappato lontano, pensando di risolvere tutto con la fuga. Non ho capito che era giusto e normale essere messo in discussione anche se ero l’unico dei reduci della “Banda del meno nove” e il capitano della squadra. La mia è stata la stessa scelta che fece anni dopo Beppe Signori, il giocatore più devastante con cui ho giocato. Già nel tunnel gli avversari sapevano che con lui in campo si partiva 1-0 per noi, come minimo. E come lui, sono stato tradito dall’orgoglio. Sarebbe bastato un pizzico di pazienza in più…Per me il calcio è passione, amore e senso di appartenenza. Il rispetto per la bandiera e verso i colori della maglia che si indossa, valori che purtroppo si stanno perdendo da qualche anno a questa parte. E secondo me questa è la causa principale di questi stadi sempre più vuoti, di questo calcio che sta andando a rotoli. E purtroppo una parte della colpa di quello che sta succedendo oggi è anche mia e di quelli della mia generazione, perché abbiamo tirato forse troppo la corda. È per questo che la gente ricorda con maggiore affetto noi della “Banda del meno nove” che i campioni di oggi, sicuramente più forti dei giocatori di quella Lazio. Perché il calcio di allora è completamente diverso da quello attuale. C’erano personaggi carismatici dei quali ti potevi fidare ciecamente. Da calciatore ho avuto grandi maestri, sia tra gli allenatori che tra i compagni di squadra. Personaggi dai quali potevi attingere, imparare, ereditare il carisma, la saggezza e l’onestà di chi è abituato a fare sacrifici per conquistare quel posto al sole. Erano personaggi che riuscivano a darti sempre il consiglio giusto. Sicuramente si guadagnava poco rispetto a oggi, i premi partita o per il raggiungimento di certi obiettivi stagionali erano irrisori, ma giocavamo con il cuore e questo la gente lo vedeva, lo capiva. Anche noi avremmo potuto buttare i soldi acquistando macchine costose, ma c’era chi ci consigliava di investire i nostri soldi in un altro modo, di pensare più al futuro che al presente. Anche noi sognavamo le attrici, le letterine di quel tempo o le donne dello spettacolo, ma c’era chi ci controllava seriamente anche fuori dal campo ed era pronto a punirci veramente quando ci beccava se sgarravamo. Ora è tutto diverso. I calciatori di oggi hanno già realizzati tutti i nostri sogni, ma in molti si sono persi o si perdono, perché non ci sono più né in campo né nelle società le guide che abbiamo avuto noi. Non faccio nomi, perché non è nel mio modo di essere, ma basta guardarsi in giro. Quei maestri come Eugenio Fascetti, ad esempio, ci hanno fatto crescere sia come calciatori che come uomini. Guarda caso, l’unico che è riuscito a gestire bene Cassano è stato proprio Fascetti. E a Bari probabilmente Antonio era più matto e ingestibile di oggi. Ma la colpa è anche nostra, di noi calciatori diventati ora allenatori. Non siamo riusciti a trasmettere ai giocatori quei valori che ci sono stati insegnati. Siamo stati dei cattivi maestri».

C’è un’amarezza profonda nelle sue parole, la stessa di tanti tifosi che parlando del calcio di oggi lo bollano con il termine spregiativo di «calcio moderno». Troppi soldi, tv troppo dominanti e campionato trasformato in una sorta di spezzatino, con partite tutti i giorni e in orari a volte assurdi. Ma soprattutto protagonisti sempre più vuoti e lontani dal mondo reale, quindi dalla gente e dai tifosi.

«Sì, devo dire che sono abbastanza amareggiato, perché io lo amo davvero il mondo del calcio. Credo che per ritrovare un po’ della credibilità persa e l’affetto della gente, il calcio debba puntare sul recupero dei personaggi, di uomini e calciatori che possono caricare la gente e dare stimoli importanti a chi sta in campo. Come è stato per me. Non lo dico per falsa modestia, ma io ero veramente un giocatore normale. Se sono arrivato a giocare per 15 anni da professionista e a indossare la maglia della Nazionale, lo devo alla forza di volontà e all’esempio che mi hanno trasmesso i leader che ho avuto la fortuna di incontrare. Penso a Giuliano Fiorini, uno che fuori dal campo era una testa matta, ma che su quel prato dava l’anima. Per me era un onore anche solo sedere al suo tavolo a cena in ritiro. Cercavo di studiare anche i minimi dettagli, per poi trasferire in campo quello che mi insegnavano. Giuliano, oltre a essere l’attaccante più forte del mondo, in un calcio senza il fuorigioco, è stato una delle persone più generose che io abbia mai incontrato nella mia vita. Quando sono arrivato a Roma, dopo il periodo passato alla pensione Paisiello, ero spaesato, con pochi soldi e senza casa. Un giorno venne da me e mi disse: “Dai, trasferisciti a casa mia finché la situazione non si sistema un po’, poi vediamo”. Sono stato da lui più di un mese e in quel periodo non ricordo di aver mai cacciato una lira, non voleva. Per me è stato come una sorta di fratello maggiore che mi ha insegnato a cavarmela in ogni situazione, anche in quelle più delicate. Era la mia vera guida. Qualcuno ora dice: “Sì, ma con quel suo modo di essere alla fine Giuliano ha campato poco”. Forse è vero, ma io dico sempre che secondo me Giuliano non ha mai vissuto un solo minuto della sua vita inutilmente. È sempre stato in prima linea quando c’era da difendere un compagno, ha sempre messo il gruppo prima di lui. Anche ora che non c’è più continua a essere presente, a vivere dentro di me e dentro tutti quelli che hanno avuto la fortuna di averlo come compagno di squadra e come amico. Quindi, alla fine, lui ha vissuto più di ciascuno di noi».

Mentre lo dice, gli occhi si perdono nel vuoto e la mente vola via lontano, come a voler tornare indietro per cancellare quel destino crudele che gli ha strappato via così presto un caro amico, oppure qualche errore commesso, come quello di aver lasciato la Lazio per una questione di stupido orgoglio, senza riflettere, senza contare prima di agire. Ma sa che non si può fare, sa che la vita è un libro in cui pensiamo di scrivere giorno per giorno pagine che invece sono già scritte dal destino. Già, il destino. È questa la parola più ricorrente in questa intervista e nella storia della «Banda del meno nove». Quel destino che ha strappato via anzitempo i due personaggi a cui Angelo Gregucci è stato più legato durante la sua esperienza nella Lazio.

«Potrei nominare tanti giocatori, più o meno famosi, ma spesso e volentieri nella vita le persone più importanti sono quelle che rimangono nell’ombra, quelle che per timidezza o per pudore restano dietro le quinte. Per questo, se mi chiedi a chi sono rimasto più legato, io ti rispondo Giorgio Calleri e Giovanni Cragnotti. I fratelli sono saliti alla ribalta delle cronache, ma il vero motore erano loro due. Ed erano entrambi i veri laziali della famiglia, molto più di Gianmarco e di Sergio. Hanno fatto tantissimo per la Lazio, ma il destino è stato crudele con entrambi. Il fato li ha strappati via troppo presto, gli ha impedito di veder coronato il frutto di tutti gli sforzi che avevano fatto restando sempre dietro le quinte, in disparte, lasciando la vetrina ai fratelli. Sono loro il simbolo della mia Lazio».

STEFANO GRECO – LAZIOMILLENOVECENTO



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