
Quello che sta accadendo nelle ultime settimane in casa Lazio è più di un semplice momento di confusione: è il segnale di una crisi gestionale profonda, figlia di un modello ormai superato.
Da Formello filtrano racconti inquietanti: fino a pochi anni fa Claudio Lotito controllava ogni minimo dettaglio, arrivando — si dice — persino a verificare i rotoli di carta igienica nei bagni del centro sportivo.
Era l’immagine di un presidente accentratore, iperattento, quasi maniacale nel supervisionare tutto.
Oggi, però, la realtà è completamente diversa.
Il “nuovo” Lotito: più senatore che presidente
Da quando è diventato senatore della Repubblica, Lotito ha moltiplicato i propri impegni extra-calcistici.
La politica, le aziende, gli eventi istituzionali: tutto sottrae tempo alla Lazio, che oggi appare senza una guida quotidiana forte.
Il proverbio dice: “Quando il gatto non c’è, i topi ballano.”
Ed è proprio ciò che sembra stia succedendo a Formello: una catena di piccoli errori e disfunzioni — dal caso della doccia fredda per gli arbitri, alla maglia pubblicata in anticipo, fino al caos comunicativo — che rivelano mancanza di controllo e disorganizzazione interna.
Fabiani non basta: serve un manager di alto profilo
Il direttore sportivo Angelo Fabiani non è un novellino, ma la sensazione è che non riesca a gestire un club con le ambizioni e la complessità della Lazio.
In carriera non ha mai diretto società impegnate in Europa, e la differenza di livello rispetto ai top club italiani è evidente.
Fabiani rappresenta la “struttura snella” tanto cara a Lotito: pochi uomini, stipendi contenuti, controllo totale.
Ma nel calcio moderno questa impostazione è un limite.
Le grandi società — Inter, Milan, Roma, Atalanta — hanno manager di spessore internazionale e staff completi: CFO, responsabili marketing globali, esperti di brand management.
La Lazio, invece, continua a pescare figure dalla Salernitana, realtà rispettabile ma non comparabile per dimensioni e ambizioni.
Come osserva l’editoriale, “l’Atalanta ha preso un dirigente dal Manchester United; noi, dalla Salernitana.”
Serve una rivoluzione organizzativa
Oggi la Lazio ha bisogno non solo di calciatori, ma di manager veri.
Un presidente operativo o un CEO di livello Marotta o Giuntoli, che possa gestire il club mentre Lotito si dedica ai suoi incarichi politici.
Un CFO competente, magari straniero, che curi il lato commerciale e industriale del marchio biancoceleste: sponsorizzazioni, merchandising, accordi internazionali.
Perché il vero problema economico della Lazio non è solo il mercato, ma il fatto che il club incassa troppo poco rispetto ai concorrenti.
In un calcio sempre più globalizzato e aziendale, la Lazio continua a operare come vent’anni fa, senza una strategia manageriale moderna.
La lezione di Cragnotti e il rischio dell’immobilismo
Il paragone con Sergio Cragnotti è inevitabile: anche lui, all’apice del proprio successo imprenditoriale, capì che non poteva gestire tutto e delegò a uomini di sport e business.
Affidò la presidenza a Dino Zoff, circondandolo di professionisti con competenze manageriali.
Lotito, invece, non ha mai imparato a delegare.
Ma con le responsabilità in Senato e il crescente distacco da Formello, continuare così rischia di trascinare la società verso un lento declino.
Le piccole sviste quotidiane sono solo i sintomi di un problema strutturale: mancano leadership, organizzazione e visione.
Conclusione: Lotito deve scegliere
O Claudio Lotito torna a occuparsi attivamente della Lazio, come faceva un tempo, oppure deve avere l’intelligenza di affidare il club a un top manager.
Non si tratta di vendere la società, ma di capire che un presidente impegnato su troppi fronti non può garantire la stessa efficienza di un tempo.
Un CFO, un CEO e un direttore generale di alto livello — anche stranieri — sarebbero la base per riportare la Lazio nel calcio che conta.
Altrimenti, la parabola del club biancoceleste rischia di diventare quella di un grande potenziale lasciato affondare nella mediocrità.
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