A noi quest’estate hanno tolto il giocattolo del calciomercato. E questo ferisce, perché per il tifoso il mercato non è solo compravendita di calciatori, è passione, è sogno, è speranza. Il calciomercato alimenta l’immaginazione dei tifosi, riempie le discussioni estive, tiene viva la fiamma della curiosità e della fede. Toglierlo significa privare il popolo biancoceleste di una delle poche fonti di entusiasmo in una stagione che si preannuncia complicata.
Eppure, se da un lato il mercato è stato azzerato, dall’altro rimane una certezza: i tifosi della Lazio. Loro non mancano mai, non tradiscono, non smettono di sostenere. Lo si è visto chiaramente dopo la trasferta di Como, quando in un momento difficile la risposta del pubblico laziale è stata forte e compatta. La vera forza della Lazio resta la sua gente, il suo popolo, quella base solida su cui ricostruire e da cui ripartire.
Ed è qui che emerge il nodo cruciale: in 22 anni di gestione societaria, possibile che non si sia mai riusciti – o forse voluto – costruire una vera sintonia con i tifosi? Questo è un problema che va oltre la singola sessione di mercato, oltre i risultati sportivi. È una questione di identità, di appartenenza, di connessione tra chi guida la società e chi la vive ogni giorno sugli spalti. Se non si riesce a creare unità con il proprio popolo, il fallimento è inevitabile. Perché il calcio non è solo numeri e bilanci, ma soprattutto passione condivisa.
La distanza tra presidenza e tifoseria diventa così una frattura che spacca un ambiente che dovrebbe invece restare unito. L’unione è la condizione necessaria per affrontare le difficoltà, per superare i momenti di crisi, per guardare avanti con fiducia. La divisione, invece, indebolisce tutti.
I comunicati stampa scritti con l’AI non aiutano in questo senso, neanche il non dover mai chiedere scusa quando si sbaglia. Lotito e Fabiani non sbagliano mai, anche quando la Lazio arriva settima, anche quando è l’unica squadra con il mercato bloccato.
Già questo non aiuta in più si aggiunge il fatto che la società non pensi mai al tifoso. Ritiro a Formello blindato, si erano fatte promesse di eventi in giro per la città, zero. Dopo una stagione fallimentare non si è fatto nulla per i tifosi, ma questa non è una novità, e un cosa che succede ogni singola stagione.
Un esempio emblematico di questo atteggiamento è quello relativo ad Angelo Peruzzi. Figura rispettata, legata all’ambiente, uomo di equilibrio e mediazione, romano e laziale nell’animo. Eppure, già prima di portarlo in società, il presidente non lo amava. Troppo vicino al popolo, troppo inserito nella romanità, troppo autenticamente laziale. Persone così, sincere e radicate, sembrano non trovare spazio in questa gestione. Eppure, proprio la presenza di figure di questo tipo è ciò che spesso fa da ponte tra società e tifoseria.
Peruzzi non cercava riflettori, non viveva di protagonismo, ma il suo peso specifico era notevole. Era un collante naturale, un mediatore prezioso, un punto di riferimento che parlava la stessa lingua dei tifosi. Allontanare chi incarna questi valori significa spezzare ulteriormente un legame già fragile.
E infatti, nella Lazio di Claudio Lotito manca completamente la lazialità. Non c’è una figura che abbia un passato vero nella storia biancoceleste, nessun dirigente nato o cresciuto classicisticamente nella Lazio. L’unico era Igli Tare, ma anche lui non era un vero laziale: lo ha dimostrato quando, una volta approdato al Milan, ha dichiarato apertamente di essere stato tifoso rossonero. Oggi la Lazio non ha dirigenti che possano incarnare il senso di appartenenza, né uomini di riferimento capaci di rappresentare il legame tra società e popolo. Anzi, Fabiani, attuale direttore sportivo si dice fosse tifoso della Roma, cosi come Floridi. Sembra che Lotito lo faccia di proposito, togliere laziali dalla società e inserire romanisti. E questo non può essere un caso: viene spontaneo chiedersi se Lotito non voglia appositamente tenere lontane figure vicine ai tifosi, per paura di condividere spazi e potere.
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Non ci dimentichiamo quello che fece Lotito a Felice Pulici, personaggio di altissimo spessore nonché simbolo di Lazialità. Il portiere del primo scudetto, laureato in legge, stimato dirigente dal 1994 fu allontanato proprio da Lotito senza una vera motivazione.
Alla fine, il paradosso è chiaro: la Lazio ha un patrimonio inestimabile che non è sfruttato, anzi spesso ignorato. I tifosi hanno dimostrato, ancora una volta, di essere l’unica vera certezza di questa squadra. E se in 21 anni di gestione non si è riusciti a valorizzare questo legame, a trasformarlo in una forza comune, allora la sconfitta non è solo sportiva. È culturale, identitaria, profonda.
La Lazio può ripartire solo da loro, dai tifosi, dal loro amore e dalla loro passione. Perché tutto il resto, dai mercati mancati alle figure interne messe da parte, può cambiare. Ma senza il popolo biancoceleste, non resta nulla.
Lotito non vuole figure che lo “oscurino” per questo non ha mai voluto vicino presenze ingombranti o Laziali amati da tifosi, per questo Di Canio come giocatore è durato pochissimo, per questo nella dirigenza Laziale non ci sono ne dirigenti di spessore, ricordiamo che Fabiani non ha mai gestito una squadra finita in Europa, ne Laziali. Se a questo aggiungiamo la boria e l’arroganza di Lotito, non è difficile intuire perchè il tifoso si sente lontano da questa dirigenza. Ma al presidente della Lazio va bene cosi, in 22 anni non ha mai cambiato rotto, segno che il tifoso è importante solo quando apre il portafoglio per l’abbonamento.
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