Lazio, la riflessione “spartiacque” su Claudio Lotito: meriti, limiti e perché oggi il club rischia di restare un’outsider

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    Lazio, la riflessione “spartiacque” su Claudio Lotito

    ROMA — Un video diventato “spartiacque” ha riacceso il dibattito su Claudio Lotito. Non l’ennesima invettiva, ma una riflessione strutturata su ciò che la presidenza ha dato alla Lazio e su ciò che — negli ultimi anni — le ha tolto in prospettiva. “Lotito va criticato quando sbaglia e apprezzato quando fa le cose giuste”, la premessa. Il punto è proprio qui: riconoscere i meriti, senza chiudere gli occhi davanti ai limiti che stanno impedendo ai biancocelesti di compiere il salto definitivo.

    Dal salvataggio al soffitto di cristallo

    Nessuno può cancellare il passato: nel 2004 Lotito ha salvato la Lazio dal baratro finanziario, riportandola a conti in ordine e stabilità. In vent’anni, il club è rimasto competitivo, ha vinto trofei nazionali, ha frequentato l’Europa. Ma, allo stesso tempo, la Lazio è rimasta outsider: capace di inserirsi nella corsa Champions quando una big fallisce la stagione, meno capace di presentarsi da favorita. Il dato citato nella discussione è crudo: tre qualificazioni in Champions League nell’era Lotito. Non per colpa di arbitri o congiure, bensì per una scelta di fondo: non investire quando bisognava accelerare.

    Il paragone proposto è con l’era Calleri: imprenditore determinante per la rinascita post-crisi, ma poi consapevole dei propri limiti e del bisogno di passare il testimone a chi potesse alzare l’asticella (Cragnotti). La sensazione è che la Lazio di Lotito sia arrivata a un tetto: quinto/sesto posto come orizzonte naturale, con picchi isolati quando il contesto aiuta.

    Il nodo degli investimenti: il “bilancio prima di tutto”

    Il cuore della critica è economico-gestionale. La Lazio, secondo questa analisi, reinveste ciò che incassa (cessioni, premi UEFA, diritti TV), ma non mette capitale fresco per scalare. E quando non investi, nel calcio 2025, resti fermo mentre gli altri avanzano. Il risultato? Sessioni di mercato fluide solo in uscita, rinforzi mirati ma non risolutivi, organico che si accorcia nelle rotazioni, obiettivi che si assestano sul “galleggiare”.

    L’obiezione più ricorrente — “Se pensi di saperlo fare, comprati la Lazio” — viene rispedita al mittente: non serve essere milionari per esercitare diritto di critica. Serve invece discutere su fatti e strategie. E i fatti, oggi, raccontano di una società prudente al punto da rinunciare ad accelerazioni che, in alcune stagioni, avrebbero potuto trasformare un “più 30 a bilancio” in un posto Champions — con ritorni economici e sportivi superiori nel medio periodo.

    Struttura corta e brand debole: le occasioni perdute

    La Lazio, viene sottolineato, arranca fuori dal campo. Marketing, commerciale, ticketing, contenuti digitali: reparti troppo snelli per un club che ambisce all’élite. E così si perdono finestre preziose:

    • Sponsor di maglia: periodi senza main partner proprio nelle stagioni a massima esposizione (Europa/Champions) significano ricavi e visibilità che evaporano.
    • Internazionalizzazione: l’arrivo di Kamada e la partnership con Mizuno erano l’occasione perfetta per presidiare il Giappone con sito multilingua, tour, campagne retail e contenuti dedicati. Opportunità rimaste a metà.
    • Programmazione: altri club pubblicano da mesi le date dei Summer Tour, attivano membership internazionali e piani di pricing dinamico. La Lazio, troppo spesso, insegue.

    L’impressione è di una gestione familiare in un calcio industriale: ogni decisione passa dal presidente, i processi rallentano, la reattività si abbassa. In un mercato ipercompetitivo, la differenza la fa la capacità di anticipare, non di rincorrere.

    Politiche commerciali e biglietteria: stadio pieno come asset

    Il tema prezzi e pacchetti ricorre: per un club che sogna uno stadio proprio, abituare oggi 45–50 mila persone all’Olimpico è un investimento sul domani. Pacchetti modulati, offerte per famiglie e studenti, funnel in lingua per i tifosi dall’estero, customer care dedicato: sono pratiche standard altrove, ancora poco strutturate a Formello. Eppure uno stadio pieno pesa anche sul campo, oltre che nei dossier da presentare a partner e istituzioni.

    Progetto sportivo: dall’anno in corso al “piano a 5 anni”

    La critica più severa riguarda l’assenza di una roadmap: dove vuole essere la Lazio tra cinque anni? Nel calcio moderno, tutte le grandi aziende definiscono Five Year Plans: ricavi target, crescita del brand, infrastrutture, mercato, vivaio. La Lazio sembra vivere di contingenze, tra stagioni buone da celebrare e annate di transizione da archiviare, senza che l’asticella cambi davvero.

    Perché la discussione spacca (e deve spaccare)

    Il dibattito è acceso perché non si mette in discussione il passato, ma si chiede ambizione per il futuro. Non è questione di “romanismo” o di complotti — argomenti che indeboliscono ogni critica seria — bensì di visione industriale. La città, la storia, la base tifosa globale: la Lazio ha i fondamentali per crescere. Servono capitale, struttura, coraggio.

    Le strade davanti (in sintesi)

    • Aprire il capitale o allargare il management, inserendo figure forti su commerciale, marketing, digital, ticketing e contenuti;
    • Investire quando serve: trasformare un bilancio “troppo prudente” in volano sportivo (qualificazione Champions = ricavi futuri);
    • Internazionalizzare: sito multilingua, e-commerce globale, tour, progetti academy e partnership media;
    • Programmare: definire un piano a 5 anni su ricavi, stadio, settore giovanile e posizionamento sportivo.

    Conclusione: oltre lo status quo

    La sintesi della riflessione è chiara: Lotito ha portato la Lazio fin qui e questo resterà nei libri. Ma il calcio è cambiato: oggi per salire di livello servono passi che il presidente, finora, non ha voluto o saputo compiere. E allora la domanda, legittima, è se non sia tempo di passare il testimone o, quantomeno, di cambiare radicalmente passo.

    Perché i tifosi non si accontentano di “navigare”: vogliono provare a vincere, stabilizzarsi in Champions, vedere un club moderno all’altezza della città e della sua storia. È qui che lo spartiacque del 2 febbraio traccia una linea: riconoscenza per il passato, ambizione per il futuro. Ora serve scegliere da che parte stare.



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