Matteo Guendouzi divide i tifosi della Lazio.
C’è chi lo considera il vero motore del centrocampo biancoceleste e chi, invece, lo giudica inutile perché non segna e non crea occasioni da gol.
La verità, come spesso accade, sta nel mezzo: il francese è un ingranaggio utile, ma non decisivo, e il problema non è lui, bensì il modo in cui è stato inserito in un reparto privo di equilibrio tecnico.
Guendouzi non è Luis Alberto, e nemmeno Milinković
Chi si aspettava che Guendouzi fosse il nuovo Luis Alberto o l’erede di Sergej Milinković-Savić ha sbagliato valutazione.
Il centrocampista francese non è un regista, non è un trequartista, e non sarà mai un uomo da 10 gol o 10 assist a stagione.
È un giocatore di corsa, di dinamismo, di rottura. Il classico mediano moderno che copre, recupera, riparte e sostiene la squadra.
Guendouzi è più vicino a Rino Gattuso che a Milinković: non illumina il gioco, ma dà equilibrio e sostanza.
In un centrocampo con Luis Alberto o Rovella accanto, può essere determinante.
In un centrocampo con Basic o Dele-Bashiru, invece, diventa un doppione inutile.
Un centrocampo sbilanciato: troppa corsa, poca qualità
Il problema della Lazio non è Guendouzi, ma la composizione del reparto.
Sarri si trova spesso costretto a schierare terzetti come Cataldi–Guendouzi–Basic, o Guendouzi–Dele-Bashiru–Basic: tanta corsa, tanto pressing, ma pochissima creatività.
Chi costruisce? Chi fa l’ultimo passaggio? Chi accompagna gli attaccanti in area?
La risposta, purtroppo, è nessuno.
Nessuno di questi giocatori ha caratteristiche da rifinitore.
Basic ha segnato un gol fortunoso con la Juventus e raramente incide in zona offensiva; Cataldi è un equilibratore, ma non un play visionario; Guendouzi, appunto, corre tanto ma non inventa.
Il risultato è un centrocampo “operaio”, utile a chiudere le linee di passaggio ma incapace di creare superiorità o occasioni pulite.
Guendouzi funziona se ha accanto un cervello
Per sfruttare al meglio il francese, serve accanto a lui un cervello calcistico: un Luis Alberto, un Rovella, o anche un Camada nel suo ruolo naturale.
Guendouzi è l’anello di congiunzione tra difesa e regia, non l’architetto del gioco.
Il Milan di Ancelotti ne è l’esempio: accanto a Gattuso c’erano Pirlo e Seedorf.
In quella struttura, Gattuso era indispensabile.
In una Lazio dove mancano i “Pirlo” e i “Seedorf”, Guendouzi appare come un corpo estraneo — ma solo perché gli mancano i complementi giusti.
Manca qualità, non intensità
Il paradosso biancoceleste è evidente: negli ultimi anni la Lazio è passata da un centrocampo ricco di talento (Luis Alberto–Leiva–Milinković) a uno fatto di corsa e fatica.
Da troppa qualità a nessuna qualità.
E oggi la squadra corre tanto, ma produce poco.
Le statistiche lo confermano: tra Guendouzi, Cataldi e Basic, i gol stagionali sono appena 3, gli assist 2.
Numeri troppo bassi per un reparto chiamato a sostenere un attacco già in difficoltà.
Il problema è di costruzione
Guendouzi, dunque, non è un errore.
È una tessera del puzzle messa nel posto sbagliato.
Non è un male assoluto, ma un giocatore complementare che da solo non può cambiare il volto della Lazio.
Con un centrocampo più tecnico accanto, potrebbe diventare una risorsa preziosa.
In questa Lazio, priva di equilibrio, finisce per sembrare un pesce fuor d’acqua.
Conclusione
Guendouzi non è da bocciare, ma da capire e valorizzare.
La sua utilità dipende dal contesto: accanto ai giocatori giusti può essere un fattore, accanto ai suoi “doppioni” no.
Il vero problema della Lazio, oggi, non è lui — è la mancanza di un centrocampo armonico e complementare, capace di bilanciare corsa e qualità.
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